L'uso di beta-bloccanti e l'intensificazione del trattamento dello scompenso cardiaco si associano a un aumento di peso nell'insufficienza cronica congestizia. L'aumento, di solito colpisce, i soggetti non edematosi in classe funzionale Nyha (New York Heart Association) I e II. Il dato - rilevante considerando che esiste un'associazione inversa tra massa corporea e mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco cronico - giunge da Kingston-upon-Hull (UK), dove Ben W. J. Boxall e Andrew L. Clarke, della University of Hull, hanno studiato 276 pazienti affetti da insufficienza cardiaca (età media: 71,3 anni; 72,8% maschi). Per prima cosa i partecipanti sono stati pesati. Alla presentazione nessuno di questi assumeva beta-bloccanti, ma tutti avevano iniziato ad assumerli entro il follow-up a 4 mesi. I soggetti sono stati pesati nuovamente dopo 1 anno. Vi è stato un incremento di peso e di indice di massa corporea. I pazienti in classe funzionale Nyha III o IV non hanno evidenziato modificazioni significative di peso, mentre quelli in classe I o II hanno fatto registrare un incremento di 1,62 kg. Nei pazienti senza edema periferico alla visita iniziale o a 1 anno, si registrava un maggiore incremento di peso.
J Card Fail, 2012; 18(3):233-7
Alte dosi di vitamina D per ridurre le esacerbazioni nel paziente con BPCO?
Bassi livelli sierici di 25-idrossivitamina D sono stati associati a più bassi livelli di FEV1, ad un alterato controllo immunologico ed a aumentato rischio di infiammazione delle vie aeree. Poiché molti pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) presentano carenza di vitamina D, gli effetti della supplementazione di vitamina D potrebbe andare ben oltre la prevenzione dell'osteoporosi. L'obiettivo di un recente studio belga (randomizzato, monocentrico, in doppio cieco, controllato con placebo), è stato quello di valutare se la supplementazione con alte dosi di vitamina D potesse ridurre l'incidenza delle riacutizzazioni della BPCO. Sono stati arruolati nell'ospedale universitario di Leuven 182 pazienti con BPCO (da moderata a molto grave) e con una storia di recente esacerbazione, a cui sono stati somministrati 100.000 UI di vitamina D o di placebo ogni 4 settimane per 1 anno. L'esito primario era il tempo alla prima esacerbazione. Gli outcome secondari erano: tempo alla prima esacerbazione, tempo alla prima ospedalizzazione, tempo alla seconda esacerbazione, FEV1, qualità della vita e mortalità. Si è osservato un significativo aumento medio dei livelli di vitamina D nel gruppo trattati rispetto al gruppo placebo (media differenza tra i gruppi 30 ng/mL [95% CI, 27-33 ng/ml], p <0.001 ). Non vi è stata differenza significativa tra i due gruppi (hazard ratio 1.1 [CI 0.82-1.56], p = 0.41) nel tempo medio alla prima esacerbazione, tassi di riacutizzazione, FEV1, ospedalizzazione, qualità della vita e mortalità. Tuttavia un'analisi post hoc, effettuata in 30 partecipanti con grave deficit di vitamina D (livelli sierici di 25-[OH] D livelli inferiori a 10 ng/ml) al basale, ha mostrato una significativa riduzione delle esacerbazioni nel gruppo trattato con vitamina D (rate ratio 0.57 [CI 0.33-0.98], p = 0.042). La principale limitazione dello studio è costituita dall'essere stato condotto in un singolo centro con un piccolo campione di pazienti. Questo studio in cui il deficit severo di vitamina D è risultato essere un prerequisito per la risposta alla supplementazione nei pazienti BPCO ha sollecitato una discussione interessante tra gli editorialisti, in particolare sulla necessità di chiarire - anche con studi successivi - il rapporto tra rischi e benefici nella supplementazione con vit. D nei pazienti con disfunzione respiratoria.Leohuck A et al. Ann Intern Med 2012; 156: 105-114Gold DR and Manson JE. Ann Intern Med 2012; 156: 156-157
Attenzione all'uso del dabigatran nei pazienti con fibrillazione atriale candidati all'ablazione
Dopo l'alert degli inizi di gennaio (Dabigatran Association With Higher Disk of Acute Coronary Events. Meta-analysis of Noninferiority Randomized Controlled Trials. Ken Uchino et al. Arch Intern Med. Published online January 9, 2012. doi:10.1001/archinternmed.2011.1666), ecco un'altra segnalazione riguardante un potenziale svantaggio nell'utilizzo del dabigatran. Un gruppo di cardiologi americani ha segnalato sul numero di JACC del 24 gennaio che, in pazienti sottoposti ad ablazione di fibrillazione atriale (FA), l'uso periprocedurale di dabigatran aumenta significativamente il rischio di sanguinamento e/o di complicanze tromboemboliche rispetto all'utilizzo di warfarin. In questo studio prospettico multicentrico sono stati inclusi 290 pazienti con FA parossistica (età media 60 anni, 79% maschi), provenienti da 8 diversi centri degli USA, di cui 145 randomizzati ad assumere dabigatran ed altri 145 ad assumere warfarin nel periodo peri-procedurale. Come è possibile evincere dalle dueTabelle accluse- 3 complicanze tromboemboliche (2,1%) si sono verificate nel gruppo dabigatran e nessuna nel gruppo warfarin (p=0.25),
- il gruppo dabigatran ha presentato inoltre una incidenza significativamente più alta di sanguinamenti maggiori (6% vs 1%; p=0.019) e di sanguinamenti totali (14% vs 6%; p=0.009) rispetto al gruppo warfarin,
- inoltre, ad un'analisi di regressione multivariata, il dabigatran si è confermato un predittore indipendente di sanguinamento o complicanze tromboemboliche (odds ratio 2.76; 95% IC 1.22 a 6.25; p=0,01).
Lakkireddy D et al. Feasibility and Safety of Dabigatran Versus Warfarin for Periprocedural Anticoagulation in Patients Undergoing Radiofrequency Ablation for Atrial Fibrillation Results From a Multicenter Prospective Registry.
J Am Coll Cardiol 2012; doi:10.1016/j.jacc.2011.12.014 (Published online 1 February 2012)
L'auto-monitorizzazione della TAO
Gli antagonisti della vitamina K sono stati usati con successo per più di 50 anni nella terapia anticoagulante orale (TAO) dei pazienti a rischio di tromboembolismo venoso o arterioso, però la loro gestione non è semplice. Esistono a tale proposito gli ambulatori dedicati ma un notevole interesse ha destato l'introduzione di sistemi computerizzati che, previo addestramento, permettono al paziente stesso di gestire la sua coagulazione. Heneghan e collaboratori hanno fanno il punto su queste nuove metodiche con una metanalisi di 11 studi che avevano confrontato la TAO auto-monitorizzata con la TAO controllata in modo convenzionale. Ebbene, l'auto-monitorizzazione è risultata superiore alla "usual care", con una riduzione del rischio del 49% di eventi tromboembolici. I sanguinamenti sono stati simili in entrambi i gruppi e l'auto-monitorizzazione non ha avuto maggiori effetti sulla mortalità (ma neanche minori, in contrasto con altri report). Questi risultati sono migliori dell'auto-testing, in cui il test viene eseguito dal paziente ma la terapia viene regolata dal medico, però non si sono dimostrati uguali per tutti: infatti sono stati più evidenti nei soggetti di età inferiore a 55 anni e con protesi valvolari meccaniche, rispetto a quelli con fibrillazione atriale (FA) e più anziani, forse per la maggiore coscienza che questi pazienti hanno della loro malattia. Certamente bisogna considerare l'alternativa dei nuovi anticoagulanti (dabigratan, rivaroxiban, apixaban) che non necessitano di monitoraggio ed hanno risultati pari o superiori ai dicumarolici, ma ancora ci sono delle incertezze: per esempio vengono filtrati dal rene e quindi non vanno bene nell'insufficienza renale, non hanno antidoti e sono costosi. Inoltre non sono ancora chiari i loro outcomes nei pazienti con protesi meccaniche e FA. Come si vede non c'è, per ora, una soluzione unica: vanno valutati i singoli casi (accessibilità ai controlli, protesi meccaniche, età e affidabilità del paziente) e sarà il medico a decidere quale sarà la soluzione più razionale per il suo paziente.Heneghan C et al. The Lancet 2012; 379: 322-334
Duplice terapia antiaggregante dopo stent medicato: 6 o 12 mesi?
Alcuni colleghi cardiologi coreani hanno voluto verificare quale fosse il periodo di durata "ideale" della duplice terapia antiaggregante (DAPT) dopo il posizionamento di uno stent medicato: 6 o 12 mesi? Per farlo hanno valutato come endpoint primario il Target Vessel Failure (TVF), definito come endpoint composito di morte cardiaca, infarto miocardico o rivascolarizzazione del vaso ischemia-guidata a 12 mesi, in due gruppi di pazienti che avevano rispettivamente effettuato la duplice antiaggregazione per 6 o 12 mesi dopo l'impianto dello stent. La percentuale di TVF a 12 mesi è stata pari al- 4,8% nel gruppo in cui la DAPT è durata per 6 mesi
- 4,3% nel gruppo in cui la DAPT è stata prolungata per 12 mesi (dato indicativo di non inferiorità, visto che il limite superiore di 1 intervallo di confidenza bilaterale al 95% è risultato del 2.4%, p = 0.001 per la non-inferiorità, essendo il margine di non inferiorità predefinito del 4.0%).
Hyeon-Cheol G et al. Six-Month Versus 12-Month Dual Antiplatelet Therapy After Implantation of Drug-Eluting Stents: The Efficacy of Xience/Promus Versus Cypher to Reduce Late Loss After Stenting (
Maggior mortalità determinata dal consumo di carne rossa
Il consumo di carne rossa è associato a un maggiore rischio di mortalità totale o legata a malattia cardiovascolare o al cancro. La sua sostituzione nella dieta alimentare con altre sorgenti proteiche determina un minore rischio cardiovascolare. Ne è convinta An Pan che, a capo di un'èquipe di studiosi ad Harvard (Boston), ha coordinato l'analisi retrospettiva di dati provenienti da 2 coorti, una di 37.698 uomini, l'altra da 83.644 donne, tutti privi di malattie cardiovascolari od oncologiche al basale. Il regime dietetico è stato analizzato tramite questionari validati e aggiornati ogni 4 anni. Sono stati documentati 23.926 decessi (di cui 5.910 cardiovascolari e 9.464 per cancro) durante un follow-up di 2,96 milioni di anni-persona. Dopo aggiustamento multivariabile per i maggiori fattori di rischio comportamentali e dietetici, l'hazard ratio (Hr) della mortalità totale per l'aumento di una porzione al giorno di carne rossa non trasformata è stato di 1,13, e di 1,20 per quella trasformata. I valori corrispondenti per la mortalità cardiovascolare sono risultati 1,18 e 1,21, e quelli per la mortalità da cancro 1,10 e 1,16. Gli autori stimano che la sostituzione di 1 razione al giorno di altri cibi (pesce, pollame, nocciole, legumi, grano intero) al posto di una porzione al giorno di carne rossa si associ a una riduzione del rischio di mortalità dal 7% al 19%. Inoltre, si ritiene che, nel periodo osservato, il 9,3% delle morti tra gli uomini e il 7,6% dei decessi tra le donne possa essere prevenuto al termine se tutti gli individui avessero consumato meno di 0,5 razioni al giorno (circa 42 g/die) di carne rossa.
Arch Intern Med, 2012 Mar 12
Il consumo di carne rossa è associato a un maggiore rischio di mortalità totale o legata a malattia cardiovascolare o al cancro. La sua sostituzione nella dieta alimentare con altre sorgenti proteiche determina un minore rischio cardiovascolare. Ne è convinta An Pan che, a capo di un'èquipe di studiosi ad Harvard (Boston), ha coordinato l'analisi retrospettiva di dati provenienti da 2 coorti, una di 37.698 uomini, l'altra da 83.644 donne, tutti privi di malattie cardiovascolari od oncologiche al basale. Il regime dietetico è stato analizzato tramite questionari validati e aggiornati ogni 4 anni. Sono stati documentati 23.926 decessi (di cui 5.910 cardiovascolari e 9.464 per cancro) durante un follow-up di 2,96 milioni di anni-persona. Dopo aggiustamento multivariabile per i maggiori fattori di rischio comportamentali e dietetici, l'hazard ratio (Hr) della mortalità totale per l'aumento di una porzione al giorno di carne rossa non trasformata è stato di 1,13, e di 1,20 per quella trasformata. I valori corrispondenti per la mortalità cardiovascolare sono risultati 1,18 e 1,21, e quelli per la mortalità da cancro 1,10 e 1,16. Gli autori stimano che la sostituzione di 1 razione al giorno di altri cibi (pesce, pollame, nocciole, legumi, grano intero) al posto di una porzione al giorno di carne rossa si associ a una riduzione del rischio di mortalità dal 7% al 19%. Inoltre, si ritiene che, nel periodo osservato, il 9,3% delle morti tra gli uomini e il 7,6% dei decessi tra le donne possa essere prevenuto al termine se tutti gli individui avessero consumato meno di 0,5 razioni al giorno (circa 42 g/die) di carne rossa.
Arch Intern Med, 2012 Mar 12
Endocrinologia
Diabete negli ipertesi: meno danni cardiovascolari dai tiazidici
Nei soggetti ipertesi in terapia farmacologica, la comparsa di diabete correlato a un diuretico tiazidico determina minore impatto sugli eventi avversi cardiovascolari a lungo termine rispetto a quello determinato da altri antipertensivi (calcio-antagonisti e Ace-inibitori). È quanto emerso da un'estensione dello studio Allhat (Antihypertensive and Lipid-Lowering Treatment to Prevent Heart Attack Trial), coordinato da Joshua I. Barzilay del Kaiser Permanente of Georgia and Emory University School of Medicine, ad Atlanta (Usa). Sono stati selezionati 22.418 partecipanti allo studio principale, con diabete basale, diabete incidente (7,5% trattati con clortalidone, 5,6% con amlodipina, 4,3% con lisinopril), oppure senza diabete a un follow-up a 2 anni nel trial; tutti questi soggetti sono stati seguiti per un periodo medio di 6,9 anni tramite database nazionali. I partecipanti trattati con clortalidone affetti da diabete mellito - rispetto a quelli senza - hanno mostrato un rischio consistentemente minore, anche se non statisticamente significativo, di mortalità cardiovascolare, generale, non cardiovascolare e coronarica rispetto ai partecipanti in terapia con amlodipina o lisinopril con diabete incidente. In generale, i pazienti colpiti da diabete incidente hanno evidenziato un rischio coronarico superiore rispetto a quello dei soggetti senza diabete, rischio che in quelli trattati con clortalidone era significativamente inferiore rispetto a quelli in terapia con lisinopril.
Circ Cardiovasc Qual Outcomes, 2012 Mar 6.
Nefrologia
Più frequenti le apnee notturne, minore la funzione renale
Le apnee notturne sono frequenti nei pazienti con nefropatia cronica (Ckd), e aumentano con la riduzione della funzione renale. Quasi il 50% dei pazienti con Ckd e malattia renale allo stadio terminale (Esrd) sperimentano ipossia notturna, che può contribuire a perdita di funzionalità renale e ad aumento di rischio cardiovascolare. Il collegamento tra funzione respiratoria e renale è stato effettuato da un'équipe della university of Calgary (Canada) guidata da David D. M. Nicholl, che ha reclutato 254 pazienti da cliniche nefrologiche e unità di emodialisi per sottoporli a un monitoraggio notturno cardiopolmonare allo scopo di determinare la prevalenza di apnea notturna (indice di disturbo respiratorio =/>15) e ipossia notturna (saturazione d'ossigeno <90% per un monitoraggio =/>12%). I pazienti sono stati stratificati in 3 gruppi sulla base del tasso stimato di filtrazione glomerulare: eGfr =/>60 , Ckd (eGfr<60 non in dialisi) e Esrd (in emodialisi). La prevalenza di apnea notturna è risultata superiore nei pazienti con Ckd e Esrd.
Chest, 2012 Jan 5.
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