EUROFLAG TODAY

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sabato 2 luglio 2011

Importanti informazioni

Cassazione, rischia carcere chirurgo reperibile che non visita paziente
Roma, 22 gen. (Adnkronos Salute) - Rischia il carcere il chirurgo reperibile che, chiamato da un collega per una presunta urgenza, non si reca immediatamente in ospedale per visitare il paziente. A prescindere dal fatto che si trattava di un caso grave oppure no. A stabilirlo è la sentenza 48379 della sesta sezione penale della Corte di Cassazione, che ha rigettato il ricorso di un medico chirurgo condannato dal Tribunale di Montepulciano ai sei mesi di reclusione per essersi rifiutato, in tre distinti e successivi momenti, "di sottoporre a nuova visita una paziente, il cui quadro clinico si era rapidamente evoluto peggiorando al punto di imporre un intervento che veniva eseguito da altri sanitari di reperibilità, essendosi rifiutato di recarsi in ospedale".Secondo i giudici della Cassazione, quindi, "il chirurgo in servizio di reperibilità, chiamato dal collega già presente in ospedale che ne sollecita la presenza in relazione ad una avvisata urgenza di intervento chirurgico, deve recarsi subito in reparto e visitare il malato. L'urgenza e il relativo obbligo di recarsi subito in ospedale per sottoporre a visita il soggetto infermo vengono a configurarsi in termini formali, senza possibilità di sindacato a distanza da parte del chiamato. Ne consegue che il rifiuto, penalmente rilevante ai sensi dell'articolo 328 del codice penale, si consuma con la violazione del suddetto obbligo e la responsabilità non è tecnicamente connessa all'effettiva ricorrenza della prospettata necessità e urgenza dell'intervento chirurgico

Dal dente al cuore

Una corretta igiene orale può ridurre il rischio di patologie cardiovascolari. Lo dimostra un recentissimo studio italiano condotto presso l'Ospedale Luigi Sacco di Milano

Diversi studi di coorte riferiscono una correlazione tra patologia periodontale ed eventi cardiovascolari; in particolare l'infezione gengivale da Porphyromonas gingivalis sarebbe associata con lo sviluppo di placche aterosclerotiche. Uno studio coordinato da Mario Clerici, immunologo e direttore del dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche dell'Università degli Studi di Milano e dei laboratori della Fondazione Don Gnocchi, e da Stefania Piconi, del dipartimento di Malattie Infettive dell'Ospedale Sacco di Milano - e svolto per la parte clinica all'Unità Odontoiatrica dell'Ospedale Sacco - ha confermato queste ipotesi. Lo studio longitudinale ha indagato con test immunologici, metabolici, e strumentali (eco-doppler del tronco carotideo) se e come alcuni indici infiammatori, molecole di adesione endoteliale, marker di attivazione leucocitaria e lo spessore dell'intima media, potessero essere positivamente influenzati dalla terapia odontoiatrica. Sono stati arruolati 35 adulti, sani, fatta eccezione per una forma lieve o moderata di parodontopatia e, al basale, si sono effettuate le seguenti valutazioni: cardiografia eco-doppler della carotide, separazione analitica di linfociti e monociti (con metodica cellulare a fluorescenza), misurazione dei livelli plasmatici dei marker infiammatori. Gli stessi test sono stati ripetuti a intervalli prestabiliti dopo il trattamento. I risultati hanno evidenziato che al basale i valori dei biomarker di infiammazione erano elevati in maniera anomala, mentre in seguito al trattamento periodontale si riduceva la carica batterica totale presente nel cavo orale, con il rientro nei range di normalità di PCR e fibrinogeno. In conclusione alterazioni infiammatorie e metaboliche associate a rischio cardiovascolare sono presenti in individui sani ma affetti da paraodontopatia, tuttavia queste alterazioni sono positivamente influenzate dal trattamento della patologia stessa e la terapia provoca addirittura una diminuzione dello spessore della placca aterosclerotica. Queste conclusioni aprono prospettive di enorme importanza per la predisposizione di terapie di prevenzione della malattia cardiovascolare, basate sul semplice presidio del mantenimento di una corretta igiene dentale.

Comunicato stampa Università degli Studi di Milano
The FASEB Journal article fj.08-119578.
Published online December 12, 2008

 

DM2: controllo glicemico inefficace su rischio CV

Nei pazienti con diabete mellito di tipo 2 (DM2), un controllo glicemico intensivo non riduce il rischio di complicanze cardiovascolari (CV). Sono queste le conclusioni dello studio randomizzato Vadt (Veterans affairs diabetes trial), pubblicato su New England Journal of Medicine. Una popolazione di 1.791 veterani con DM2 insufficientemente controllato ha ricevuto un trattamento ipoglicemizzante standard o intensivo (quest'ultimo con l'obiettivo di ottenere una riduzione assoluta dell'emoglobina glicata di 1,5 punti percentuali rispetto al gruppo standard) per un follow-up medio di 5,6 anni. Il trattamento intensivo ha dimostrato un maggior potere ipoglicemizzante (livelli medi di emoglobina glicata: 6,9% rispetto all'8,4% del gruppo che ha ricevuto terapia standard) ma non ha influenzato il rischio di eventi cardiovascolari (infarto miocardico, ictus, scompenso cardiaco, interventi chirurgici per cause vascolari, coronaropatia o amputazione per gangrena ischemica), che si sono verificati in 235 pazienti verso 264 nel gruppo standard (p = 0,14). Anche la mortalità globale e le complicazioni microvascolari sono risultate simili nei due bracci di trattamento. "I nostri dati confermano i risultati degli studi Accord e Advance, sull'inefficacia del controllo glicemico intensivo nel ridurre gli eventi cardiovascolari nei pazienti con DM2 avanzato, sebbene non sia possibile escludere un beneficio più precocemente nel corso della malattia", concludono gli autori della ricerca. "Al momento, un adeguato trattamento dell'ipertensione, della dislipidemia e degli altri fattori di rischio cardiovascolari appare l'approccio più efficace per prevenire la morbilità e mortalità cardiovascolare in questi pazienti".

NEJM 2009; 360: 129-39

Omega-3 non efficaci sulle aritmie

L'assunzione di acidi grassi omega-3, pur riducendo il rischio di mortalità per cause cardiovascolari di circa il 20%, non ha effetti antiaritmici. Questi i risultati di una metanalisi condotta per valutare i dati disponibili in letteratura sugli effetti cardiovascolari e antiaritmici (interventi dei defibrillatori cardiaci impiantabili e morte improvvisa, in particolare) degli omega-3. Su un totale di 12 studi e 32.779 pazienti presi in considerazione, l'uso di integratori alimentari a base di omega-3 non ha avuto un effetto significativo sulla riduzione degli interventi defibrillatori (odds ratio: 0,90; 95%CI: 0,55-1,46) e delle morti improvvise (odds ratio: 0,81; 95%CI: 0,52-1,25), pur mostrando un trend favorevole. L'assunzione di omega-3 appare ridurre la mortalità per cause cardiovascolari (odds ratio: 0,80; 95%CI: 0,69-0,92) ma non la mortalità globale. I risultati della metanalisi, che non confermano l'utilità dell'assunzione integrativa di omega-3 nella prevenzione secondaria delle aritmie, sembrano contraddire quanto emerso dallo studio Gissi-Prevenzione, che per primo aveva suggerito gli effetti anti-aritmici di questi composti, e potranno essere rivisti dopo l'imminente pubblicazione dei dati dello studio Omega, che valuterà l'effetto degli omega-3 sul rischio di morte improvvisa dopo infarto miocardico.

BMJ 2008; 337: a2931

Più sonno riduce il rischio coronarico

La durata del sonno notturno è associata con l'incidenza di calcificazioni coronariche, un ben noto fattore predittivo subclinico di coronaropatia: per ogni ora di sonno in più, il rischio di sviluppare calcificazioni si riduce del 33%. È quanto emerge da un'analisi  effettuata su un sottogruppo di 495 pazienti arruolati nello studio Cardia (Coronary artery risk development in young adults). L'incidenza cumulativa di calcificazioni coronariche valutate mediante TAC, dopo un follow-up di 5 anni, è stata del 12,3%. La durata del sonno è stata misurata con actigrafia del polso ed è risultata essere indipendentemente e significativamente associata con una riduzione dell'incidenza di calcificazioni (ajusted odds ratio per ogni ora: 0,67; p = 0,01). Nessuno dei mediatori fisiologici potenzialmente responsabili di questa associazione presi in considerazione (lipidemia, pressione arteriosa, indice di massa corporea, diabete, marker di infiammazione, consumo di alcol, depressione) ha significativamente alterato la significatività o le dimensioni di questa associazione. Come sottolineato dagli autori della ricerca, "l'effetto del sonno è risultato quantitativamente simile a quello di altri fattori di rischio coronarico riconosciuti: un'ora addizionale di sonno riduce il rischio di calcificazioni coronariche quanto una diminuzione di 16,5 mmHg della pressione sistolica. Nonostante alcune limitazioni dello studio, fra cui in primo luogo la mancanza di dati oggettivi sulla frequenza di apnee notturne, i risultati meritano di essere confermati da studi d'intervento".

JAMA 2008; 300: 2859-66

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